07/07/09

Ribbellione e repressione in Xinjiang

Erano solo una decina i banchi di frutta e verdura aperti al mercato di Guangming, il più grande e affollato centro commerciale di Urumqi, la capitale della regione autonoma dello Xinjiang.
Anche se le violenze si sono registrate domenica notte, ieri la tensione in città era ancora altissima per ammissione delle stesse autorità locali. In un clima surreale di legge marziale non dichiarata, la maggior parte dei 2,3 milioni di abitanti di Urumqi ha disertato mercati e uffici, strade e palazzi per restare chiusa in casa. Per l’intera giornata le forze di sicurezza, ma anche i comuni cittadini, sono stati impegnati a rimuovere carcasse di autobus e macchine (i bilanci ufficiali ne hanno contate oltre 400) rimasti sulle strade a testimonianza di quelle che la stessa agenzia di stampa Xinhua definisce scene di “guerra urbana”.
Il bilancio provvisorio, fornito dalle stesse autorità cinesi, e che sembra destinato a crescere ulteriormente è di 140 morti e oltre 800 feriti. Nelle foto e nei filmati comparsi su internet si vedono civili sanguinanti e feriti ma nulla che lasci intuire le reali dimensioni della violenza. Secondo i media ufficiali cinesi alcune centinaia di giovani si sono radunate senza apparenti ragioni in Piazza del Popolo, la principale piazza della città, verso le otto di sera di domenica. In poco tempo i dimostranti avrebbero dato vita a una serie di attacchi contro passanti e negozi.
Diversa la ricostruzione delle molte associazioni uighur in esilio. Secondo la loro versione, gli uighur avevano organizzato in rete una protesta pacifica. I partecipanti sarebbero stati inizialmente un migliaio (300 secondo le autorità cinesi) per poi arrivare a tremila (500 secondo le autorità). La manifestazione sarebbe poi degenerata a causa dell’intervento della polizia e delle squadre antisommossa.
La protesta sarebbe legata a due vicende occorse nel mese di giugno. Il 16 la polizia avrebbe fatto fuoco su una sessantina di persone che protestavano a Urumqi contro un nuovo progetto edilizio ferendo a morte un uomo. Dieci giorni più tardi si erano registrati due morti e 118 feriti in una fabbrica di giocattoli di Shaoguan (Guangdong) dove il governo aveva inviato seicento lavoratori migranti dallo Xinjiang. L’iniziativa era parte di una politica che tentava di coniugare la ricerca di lavoro degli uighur più poveri con la crescente richiesta di manodopera a basso costo del sud-est cinese. Qualcosa però è andato storto e la notte del 26 c’è stato un violento scontro tra le due principali etnie della fabbrica, uighur e cantonesi che si sono armati di spranghe e coltelli con i risultati che abbiamo già detto. Gli uighur sostengono di essere scesi in piazza per chiedere un’inchiesta governativa che facesse luce sulle motivazioni che hanno portato alla tragedia di Shaoguan. Il governo, invece, ritiene chiuso l’incidente.
Ad ogni modo la protesta di domenica sera ha rapidamente assunto connotati etnici di rivendicazione della minoranza uighur contro la maggioranza han, l’etnia dominante in Cina, e nel giro di poche ore si è estesa a molti altri quartieri della città. La violenza è dilagata per ore e ha trasformato la notte di domenica in “una notte da incubo”, come la definisce la stampa ufficiale cinese.
Bisogna ammettere che non è da oggi che il clima della regione è incandescendente. Xinjiang in cinese vuol dire nuova frontiera. E’ un territorio situato nell’estremo ovest del gigante cinese e dista 3200 chilometri da Pechino. Con la Cina ha sempre avuto un rapporto estremamente conflittuale. Fu conquistato la prima volta nel II secolo durante la dinastia Han e da allora la sua storia è stato un susseguirsi di regni indipendenti e di dominazione cinese. L’ultima volta fu conquistato nel 1949 dall’esercito di Mao Zedong. La sua gente, gli uighur, ha lingua e tratti somatici turchi, è di religione musulmana ed è nota per il carattere fiero. Nella loro storia indipendentista sono anche ricorsi al terrorismo, cosa che dal 2001 accade sempre più frequentemente. La loro lotta si scontra con le volontà di Pechino che avalla la ‘teoria della sicurezza culturale’ del direttore della Commissione per gli affari etnici Li Dezhu. Questa teoria prevede il rispetto delle minoranze etniche e culturali non preservandole ma 'rinnovandole' e teorizza il soffocamento delle culture altre (quella musulmana degli uighur, quella buddhista dei tibetani solo per fare gli esempi più noti) attraverso la ‘sommersione etnica’, ovvero il riversamento nella regione di milioni di contadini di etnia han. Chissà se ieri il nostro presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si riferiva anche a questi fatti quando a Roma ricordava al presidente cinese Hu Jintao l’importanza dei diritti umani “nel massimo rispetto delle ragioni cinesi, e dell'integrità e autonomia di decisione della Cina e delle sue istituzionirappresentative".

Questo articolo è stato pubblicato da L'altro,
il 07/07/09

Nessun commento:

Posta un commento