28/10/08

Roma meets Beijing

Roma, Padiglione 9C del Mattatoio di Testaccio. Uno spazio sapientemente ristrutturato, bonificato dopo anni di abbandono senza che vengano cancellate le tracce della sua originale destinazione d'uso. Pavimento di cemento, travi a vista, fili scoperti, argani ancora appesi alle pareti e, sui muri, antiche scritte che ci aiutano a ricostruire la storia dell'edificio: fattorie. Sembra di trovarsi in una di quelle fabbriche dismesse tra il centro e la periferia della città di Pechino, quelle fabbriche che sono state occupate e trasformate in atelier da una generazione di giovani artisti che pretende di rompere col passato, trasformare il presente per costruire un futuro diverso da quello che immagina il loro governo. Lo spazio giusto per la serata evento, promossa da Azienda speciale Palaexpo e realizzata da Zoneattive, Roma meets Beijing.

La serata si apre con l'inaugurazione della mostra Little China del fotografo Marco Bulgarelli. Pochi scatti scelti che documentano la difficile realtà dell'inserimento sociale dei giovani cinesi trapiantati in un piccolo paese dell'Italia del sud; sembra di essere in Cina e invece siamo a pochi chilometri dalle nostre case. La maggioranza dei cinesi presenti nel territorio italiano proviene da una zona circoscritta dello Zhejiang, una regione della Cina meridionale, e precisamente dalla città di Wenzhou. E proprio di questa città ci racconta la proiezione Wenzhou e l’idea cinese del divenire di Alessandro Lisci, la città dove l'Occidente si reca a fare affari, una città dall'identità confusa, ancora in bilico tra passato e avvenire.

Le due mostre sono il contesto in cui si inserisce l'evento principale della serata: il live punk-ska dei Brain Failure, giovane gruppo del mondo underground di Pechino, icona pop il cui manager è Yan Lei, artista internazionalmente riconosciuto come uno degli esponenti più rappresentativi della nuova scena artistica cinese.

I Brain Failure sono giovanissimi, emblema perfetto delle nuove generazioni delle metropoli cinesi che conoscono sin troppo bene il significato di povertà e omologazione forzata e che, attraverso l'arte e la musica, rifiutano di condurre la vita dei loro padri e scomparire nella massa di un miliardo e mezzo di persone costrette a ridurre le loro vite ad un eterno e immutabile ciclo: lavorare, mangiare, dormire.

Il look trasandato ma curato nei dettagli, le sei punte perfette della cresta del chitarrista, i piercing, i tatuaggi, l'inglese stentato. Sono il prodotto perfetto della globalizzazione, pronti per essere trasmessi su MTV. È invece l'energia che sprigionano, più che il loro aspetto, la forza della loro esibizione. La grinta di chi ha giurato a se stesso di emergere a qualsiasi costo e che fa rivivere il punk delle origini, una musica rozza, rumorosa, semplice ma diretta. La loro performance riesce a coinvolgere il selezionato pubblico presente in sala, lo costringe a riscoprire i propri giovanili ardori e lo guida in una danza scomposta che presto si trasforma in spintoni, sorrisi, sudore e nuove amicizie. All'apice del concerto, tra lo stupore e le risate dei presenti, perfino il critico d'arte Achille Bonito Oliva, sigaro in bocca, sale sul palco e si dimena, cercando di evitare le telecamere che subito puntano su di lui.

Calmo, silenzioso, quasi estraneo all'atmosfera in cui è immerso, Yan Lei si muove tra palco e platea a riprendere le immagini che trasformerà in un'installazione, il suo contributo personale alla mostra Cina XXI secolo. Arte fra identità e trasformazione, al Palazzo delle Esposizioni dal 19 febbraio.

Una splendida serata tutto sommato, pesa però l'assenza di una rappresentanza di quelle migliaia di immigrati cinesi che vivono a Roma; si ha l'impressione di non aver saputo sfruttare un'occasione di confronto importante, l'amarezza di aver mancato un'opportunità per ricucire il tessuto sociale di questa città.

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