Zhang Lijia è una giornalista nata nel 1964 sulle rive del fiume Azzurro, a Nanjing. La sua educazione, come quella di tutta la sua generazione, è avvenuta alla fine degli anni Settanta, quando la Rivoluzione culturale stava perdendo di intensità ma la propaganda del Partito ancora imponeva comportamenti e limitazioni personali impensabili nella Cina odierna. Negli anni Ottanta ha lavorato per dieci anni come operaia in una fabbrica di missili della sua regione, ma la sua fortuna fu quella di incontrare, mentre era in visita alla Città proibita, un giovane scozzese che la portò con sé in Gran Bretagna. Oggi vive a Pechino e fa parte dei tanti cinesi che, scappati da una “patria” che gli stava stretta, sono tornati a costruire con entusiasmo la nuova Cina.
Un suo articolo apparso sul Guardian poco prima dell’inizio delle Olimpiadi, poi riportato sul China Daily nel giorno della cerimonia di inaugurazione e finalmente pubblicato integralmente da Danwei.org, uno dei migliori siti di informazione indipendente sulla Cina contemporanea, riflette sulle incredibili trasformazioni avvenute negli ultimi trent’anni. Il titolo originale “Olimpiadi e bombe a mano”, è stato trasformato dal Guardian in “È ora di smettere di criticare la Cina: abbiamo già fatto molto” e, dal China Daily, in “Venite a vedere cosa siamo diventati”.
I tre articoli cominciano allo stesso modo. Raccontano di un’infanzia difficile in cui lo sport ufficiale era tirare bombe a mano giocattolo su un muro della scuola dove campeggiava la scritta: “esercitare il fisico e proteggere la Patria”. Tutti e tre fanno riferimento al periodo della Rivoluzione culturale, quando anche i riccioli naturali erano sintomatici di una personalità borghese, antirivoluzionaria e dunque punibile, confrontandolo con il periodo attuale in cui ognuno ha il diritto di apparire in pubblico come crede. Tutti e tre riportano che all’epoca in cui Zhang frequentava l’università era costretta ad arrostire cicale per soddisfare il proprio fabbisogno di carne mentre oggi suo nipote, anch’esso studente universitario a Nanjing, guida una macchina che gli appartiene. Tutti e tre si concludono con una nota di speranza: “Mi chiedo: se bambini occidentali conoscessero la Cina quanto i bambini cinesi conoscono l’Occidente, avrebbero comunque la stessa paura? Forse le Olimpiadi contribuiranno ad avvicinarci un poco”.
Sembrerebbe che la stampa cinese sia finalmente in sintonia con quella occidentale e, addirittura, con un sito di informazione indipendente. A leggere bene però, le differenze si avvertono, e non sono banali. Nel pezzo originale ad esempio, a proposito della libertà di informazione, Zhang scrive che è senza dubbio vero che alcuni cinesi non hanno accesso a molte delle notizie che circolano sui mezzi di informazione occidentali e che altri, a cui l’accesso è permesso, decidono di sminuirle e di trattarle come le solite lamentele delle “forze anticinesi” o, addirittura, di non trattarle affatto. Questo è un atteggiamento che viene criticato dalla giornalista che, qualche riga più in la, non risparmia neppure i media occidentali che, misurando l’etica cinese secondo valori squisitamente autoreferenziali, accusano la Cina di un abuso o di un altro, senza curarsi nemmeno di verificare quali accuse sono fondate e quali no. Se è prevedibile che il China Daily non abbia riportato la parte sui mezzi di informazione cinesi, lascia stupiti che una testata come il Guardian abbia sorvolato sull’opinione dell’autrice riguardo ai mezzi di informazione occidentali. Chi scrive si chiede se e quando usare il termine censura o se invece parlare, come per altro farebbero i funzionari cinesi, di qualche taglio redazionale di troppo, probabilmente per esigenze di spazio.
Un suo articolo apparso sul Guardian poco prima dell’inizio delle Olimpiadi, poi riportato sul China Daily nel giorno della cerimonia di inaugurazione e finalmente pubblicato integralmente da Danwei.org, uno dei migliori siti di informazione indipendente sulla Cina contemporanea, riflette sulle incredibili trasformazioni avvenute negli ultimi trent’anni. Il titolo originale “Olimpiadi e bombe a mano”, è stato trasformato dal Guardian in “È ora di smettere di criticare la Cina: abbiamo già fatto molto” e, dal China Daily, in “Venite a vedere cosa siamo diventati”.
I tre articoli cominciano allo stesso modo. Raccontano di un’infanzia difficile in cui lo sport ufficiale era tirare bombe a mano giocattolo su un muro della scuola dove campeggiava la scritta: “esercitare il fisico e proteggere la Patria”. Tutti e tre fanno riferimento al periodo della Rivoluzione culturale, quando anche i riccioli naturali erano sintomatici di una personalità borghese, antirivoluzionaria e dunque punibile, confrontandolo con il periodo attuale in cui ognuno ha il diritto di apparire in pubblico come crede. Tutti e tre riportano che all’epoca in cui Zhang frequentava l’università era costretta ad arrostire cicale per soddisfare il proprio fabbisogno di carne mentre oggi suo nipote, anch’esso studente universitario a Nanjing, guida una macchina che gli appartiene. Tutti e tre si concludono con una nota di speranza: “Mi chiedo: se bambini occidentali conoscessero la Cina quanto i bambini cinesi conoscono l’Occidente, avrebbero comunque la stessa paura? Forse le Olimpiadi contribuiranno ad avvicinarci un poco”.
Sembrerebbe che la stampa cinese sia finalmente in sintonia con quella occidentale e, addirittura, con un sito di informazione indipendente. A leggere bene però, le differenze si avvertono, e non sono banali. Nel pezzo originale ad esempio, a proposito della libertà di informazione, Zhang scrive che è senza dubbio vero che alcuni cinesi non hanno accesso a molte delle notizie che circolano sui mezzi di informazione occidentali e che altri, a cui l’accesso è permesso, decidono di sminuirle e di trattarle come le solite lamentele delle “forze anticinesi” o, addirittura, di non trattarle affatto. Questo è un atteggiamento che viene criticato dalla giornalista che, qualche riga più in la, non risparmia neppure i media occidentali che, misurando l’etica cinese secondo valori squisitamente autoreferenziali, accusano la Cina di un abuso o di un altro, senza curarsi nemmeno di verificare quali accuse sono fondate e quali no. Se è prevedibile che il China Daily non abbia riportato la parte sui mezzi di informazione cinesi, lascia stupiti che una testata come il Guardian abbia sorvolato sull’opinione dell’autrice riguardo ai mezzi di informazione occidentali. Chi scrive si chiede se e quando usare il termine censura o se invece parlare, come per altro farebbero i funzionari cinesi, di qualche taglio redazionale di troppo, probabilmente per esigenze di spazio.
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