L’arrivo di Obama in Cina è stato caratterizzato da una lunga attesa carica di molteplici aspettative.
Innanzitutto le Tshirt di Obamao, nate per gioco come la crasi tra due icone pop e subito messe al bando per le implicazioni politiche che potevano portare con sé. Poi la discussione sulla traslitterazione in cinese del nome di Obama: si scriveva Aobama, il carattere Ao usato per le Olimpiadi, (letteralmente: astruso, difficile a comprendersi), ma i comunicati stampa ufficiali hanno cominciato a scrivere Oubama, con il carattere Ou di Europa, lo stesso carattere che una sinologa nostrana ha argutamente messo in relazione con Outu, vomitare.
Anche i titoli trionfanti dei quotidiani cinesi, come ad esempio “Obama è il primo presidente americano a visitare la Cina durante il suo primo anno di governo”, e ancora, “i legami economici tra i due paesi sono così forti da non lasciare spazio a divergenze” si sono scontrate con le notizie riportate dalla stampa aldilà del Pacifico. Prima, la grande eco mediatica del rapporto di Human Rights Watch sulle Black Jail, carceri segrete ubicate in hotel, ospedali e altri edifici di proprietà statali, dove vengono rinchiusi coloro che vanno a Pechino per presentare le proprie petizioni (un’antica pratica, sulla carta incoraggiata dal governo centrale, con cui i cinesi possono denunciare abusi di potere da parte delle autorità locali). Poi la lettera aperta di 400 cittadini cinesi, in gran parte residenti all’estero, che chiede a Obama di intervenire su cinque punti: richiedere ufficialmente il rilascio dei prigionieri politici e dei giornalisti; andare a messa a Pechino per denunciare le persecuzioni ai gruppi religiosi; incontrare all’interno dell’ambasciata americana la moglie di Liu Xiaobo, intellettuale imprigionato perché autore di Carta 08; chiedere la verità sui fatti di Tiananmen e incoraggiare il dialogo tra il governo cinese, il Dalai Lama e gli uiguri attraverso l’apertura di un processo “indipendente e giusto” sui fatti di Lhasa del 14 marzo 2009 e quelli di Urumqi del 7 maggio 2009. Trovava spazio anche Ai Weiwei, noto artista e attivista cinese, che si domandava sul Newsweek: “Che ci importa della crescita economica quando non ci sono le protezioni di base per i cittadini?”.
Tutte questioni su cui il Partito comunista cinese non ammette intromissioni. E il Partito governa lo stato che attualmente ha in mano le sorti dell’economia mondiale: possiede le riserve valutarie più grandi del mondo ed è il principale creditore estero degli Stati Uniti.
I rapporti di forza si sentono. Se l’America chiede una rivalutazione dello Yuan, il portavoce del ministro del commercio cinese, Yao Jian, risponde chiaramente: “è pregiudizievole ai fini della ripresa mondiale e semplicemente ingiusto continuare a chiedere agli altri di apprezzare la propria moneta quando si permette al dollaro di continuare a calare".
Se la Casa Bianca chiede un meeting pubblico, con domande spontanee e diretta tv, le autorità cinesi lo riducono a un incontro con studenti “selezionati”, di cui hanno già verificato le domande e dove impediscono l’accesso alle telecamere.
Xinhua, l'agenzia di stampa governativa, apre un forum in cui i cittadini possono porre domande al presidente. Si scopre che le curiosità degli abitanti dell’Impero di Mezzo si riducono a: “quanto vino riesce a bere in una serata?” e ancora “sua moglie indossa sempre abiti molto belli. Pagate voi o l'amministrazione americana?”. Insomma, secondo molti non sono credibili. L'ambasciata americana risponde aprendo una pagina web per "accogliere quesiti indipendenti". E Obama, stanco delle domande preconfezionate degli “studenti scelti”, risponde questi ultimi. La domanda sul Grande Firewall che isola la rete cinese da quella mondiale dà modo al presidente Obama di dire la sua sulla libertà di espressione. Insomma come sintetizza in un twit Micheal Anti, uno dei blogger cinesi più attenti ai temi della libertà di espressione: Obama ha detto “Sono un grande supporter della non-censura” (che è bene) e poi un’ora di nulla.
Anche gli impegni sui cambiamenti climatici diventano sempre più vuoti di contenuti. Al termine del colloquio tra Barack Obama e la sua controparte cinese Hu Jintao si afferma che dai negoziati di Copenaghen sul clima dovrà uscire un accordo mondiale che abbia "effetto operativo immediato" che significa che America e Cina si impegnano a raggiungere un accordo politicamente vincolante su obiettivi immediati di riduzione delle emissioni CO2, ma che dovranno continuare a lavorare per raggiungere, in un futuro non meglio precisato, l'accordo legalmente vincolante e quindi davvero operativo.
Il programma della visita in Cina di Obama si concluderà con le consuete foto di rito dei due presidenti nella città proibita e sulla grande muraglia. Peccato. Due leader così coscienti del potere mediatico dell’immagine hanno mancato l’occasione di farsi fotografare davanti a pannelli solari e turbine eoliche. Avrebbero finalmente rappresentato le speranze dell’intero pianeta.
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